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Uccidere farfalle e altri crimini poco perseguibili

Summary:

(partecipa al Fanfic Italia P0rn Fest #15 – 15 & P0rnant)
Taro Misaki é forse stato cresciuto con metodi anticonvenzionali ed è stato educato secondo una morale a tratti discutibile. Eppure, perfino lui conosce le tre leggi fondanti dell’universo. Primo: non mentire ai tuoi genitori se non sei sicuro di poter portare a termine le tue stesse balle. Secondo: non dare il tuo numero per educazione, perché poi ti toccherà avere a che fare con sms isterici alle 4 del mattino. Terzo, forse più importante: scoparsi il proprio migliore amico è – per usare un tecnicismo – un’idea del cazzo.

E qui si scade nel letterale o nell’umorismo becero, perché l’idea proprio da lui veniva, dal suo cazzo.

Notes:

 Il mio primo fill al p0rnfest ♥♥♥ Temo non sia il porno angst che l’anon avrebbe voluto. Spero che il delirio di una famiglia omicida possa comunque ravvivare questo gelido gennaio!

Prompt originale: Il motivo per cui Taro si sposta così spesso è che suo padre è in realtà un serial killer. Lui lo sospetta ma il suo amore per Tsubasa è troppo forte e decide di invitarlo a casa sua per dirgli addio come si deve. Non è una buona idea.

Cose che non ho superato manco per un cazzo: il magliocino arancione di Taro al primo incontro con Tsubasa; l'aver scoperto che solo in una versione dell'anime, su tutte, c'é quella scena e quel magliocino; la cosa del telefoni nella serie nuova; Hikaru as a person.

Nota: personaggi minorenni a caso, ma onestamente non so neanche io di che età immaginarli, fate un po’ come volete, sono veramente piccoli in canon e io boh, li immagino sempre tipo dei sedicenni, I guess?

Work Text:

 « Dobbiamo parlare. »

« Cosa- »

Taro quasi inciampa sul tappeto del salotto – che divertente, si ritrova a pensare, che divertente sarebbe stamparsi di faccia sul tavolino di vetro e farlo in mille pezzi. Come se non avesse già passato due ore a pulirlo dal sangue, solo la settimana scorsa.


Il suo arrivo nella cittadina di Nankatsu era stato privo di qualsiasi evento degno di nota, tanto che Taro, per la prima volta, si era azzardato a fare qualche domanda al padre. Loro due non parlavano mai di lavoro, anche se Taro sapeva perfettamente che ‘pittore’ non era una professione con cui un padre single poteva mantenere se stesso e il proprio figlio, tantomeno girando il mondo a piacere. Non c’era dubbio che a papà piacesse dipingere, ma nella testa di Taro c’è una connessione chiarissima, cristallina, tra la pittura e la sua vera professione. Innanzitutto, la scelta metodica, quasi maniacale dei luoghi in cui trasferirsi con la scusa di voler dipingere un soggetto specifico; quasi ci fosse qualcuno che li voleva in un luogo preciso in una tale data, si sarebbe potuto azzardare. E poi gli orari assurdi, quando coglieva l’ispirazione, a cui il padre usciva per le sue lunghe passeggiate meditative. A quello si univano poi la stanza della pittura – sacra e inaccessibile, sempre chiusa a chiave – da cui proveniva un odore costante di vernici e colori, così forti da far girare la testa, abbastanza forti da coprire eventuali odori ben più sospetti. Senza contare i solventi, i liquidi per smacchiare, pulire, cancellare ogni traccia.

A Taro non serviva essere un genio per capire che tra pittore e serial killer la differenza era poca, pochissima, quasi nulla.

Dal canto suo, il signor Misaki si era sempre premurato di non far pesare la propria carriera sul figlio. Certo, trasferirsi era inevitabile, ma moltissime professioni socialmente accettabili prevedevano uno stile di vita simile, senza per altro offrire altrettanti vantaggi. L’uomo poteva organizzare autonomamente il lavoro e fare in modo di essere sempre presente nella vita del figlio; spesso, lavorando la notte, aveva intere giornate libere da dedicare a Taro, con grandissima gioia del ragazzo. E nonostante il lavoro fosse anche la sua passione, non aveva mai cercato in alcun modo di spingere Taro a seguire le sue orme, nemmeno per scherzo.

I bambini sono sensibili a questo genere di pressione genitoriale.


« È solo che- » Tsubasa, appena oltre l’uscio di casa Misaki, si morde la labbra imbarazzato e abbassa gli occhi « Ultimamente sei strano. Pensavo mi avessi invitato a casa tua per- »

« Parlare?! » sbotta Taro, già nel panico più totale.

« Perché lo dici con quel tono? »

« Io?! Sei tu che hai iniziato con quel tono apocalittico! Sì, cioè, volevo parlare, ma non parlare. »

Da quando lo conosce, Tsubasa non ha mai lasciato intendere di conoscere la benché minima norma sociale o di sapere leggere una situazione di conflitto che non coinvolgesse due pali e una rete. E ora, proprio ora che Taro ha preso la decisione di comportarsi da migliore amico e basta, eccolo che se ne esce con queste idiozie da commedia romantica!

« Come vuoi. » bofonchia il capitano « Però mi ignori da giorni e perfino io me ne sono accorto. »

Lo sottolinea, quel ‘perfino io’, quasi gli avesse letto nel pensiero. Che è un po’ quello che fa di solito, si ricorda Taro. Quello che ha fatto dal primo giorno, anzi, dalla prima sera, al parco, in quei dodici-tredici secondi che ci erano voluti perché Taro si convincesse di aver trovato la propria anima gemella.

Il pensiero, allora, era stato del tutto platonico.


Taro Misaki é forse stato cresciuto con metodi anticonvenzionali ed è stato educato secondo una morale a tratti discutibile. Eppure, perfino lui conosce le tre leggi fondanti dell’universo. Primo: non mentire ai tuoi genitori se non sei sicuro di poter portare a termine le tue stesse balle. Secondo: non dare il tuo numero per educazione, perché poi ti toccherà avere a che fare con sms isterici alle 4 del mattino. Terzo, forse più importante: scoparsi il proprio migliore amico è – per usare un tecnicismo – un’idea del cazzo.

E qui si scade nel letterale o nell’umorismo becero, perché l’idea proprio da lui veniva, dal suo cazzo; nonostante il cervello stesse facendo i salti mortali per portare il resto del corpo nella direzione opposta, alla fine si torna sempre là. Nella doccia degli spogliatoi. Si erano sempre attardati, loro due, fin dal primo allenamento, quasi fingendosi stupiti quando i compagni di squadra sparivano uno dopo l’altro. S’infilavano sotto lo stesso getto, parlando fitto fitto, a bassa voce, neanche si trattasse di qualche segreto. Invece era sempre calcio, partite, strategie. Taro si spremeva la bottiglia di bagnoschiuma addosso, poi ne versava un po’ sulla schiena di Tsubasa. A volte l’amico era così preso dalla conversazione che, se Taro non si fosse preoccupato anche della sua doccia, avrebbero rischiato di rimanere lì fino a notte fonda. Taro toccava dappertutto, gli passava le mani sulla schiena, tra i capelli, senza pensarci; e, di contro, Tsubasa lo lasciava fare come se fosse del tutto normale.

Fino a quella volta.

La volta in cui Taro aveva iniziato a blaterare qualcosa su un qualche argomento ora irrilevante, mentre Tsubasa, eccezionalmente silenzioso, aveva preso su di sé il compito di gestire la ‘loro’ doccia. All’inizio, la sensazione delle dita dell’amico che s’intrecciavano ai suoi capelli era stata piacevole, ma niente di che. A poco a poco, tuttavia, Tsubasa pareva averci preso gusto e quel tocco gentile si era trasformato in un vero e proprio massaggio. Il capitano era completamente concentrato in questa sua nuova missione, facendo tesoro delle reazioni di Taro e calibrando i propri movimenti fino a strappargli un gemito di soddisfazione. Si era spinto un po’ più in basso, scendendo lungo il collo e usando la schiuma dello shampoo per continuare a massaggiare l’altro ragazzo.

E lì, con gli occhi chiusi, tremante, mentre le mani del suo migliore amico si muovevano ignare del caos che stavano scatenando, Taro si era reso conto di due cose: primo, forse i suoi pensieri non erano poi così platonici; secondo, aveva un’erezione.

Sarebbe stato inesatto dire che Taro se n’era andato di corsa, lasciando Tsubasa con una scusa; Taro era volato fuori da quello spogliatoio.

Matsuyama Hikaru, massimo esponente della Legge Fondante Numero Due, era diventato l’unica valvola di sfogo per Taro. Il ragazzo lo aveva tempestato di messaggi, a volte anche vocali, su che amico di merda fosse, su come non avrebbe dovuto mai più neanche parlare con Tsubasa per compensare la vergogna cosmica di aver avuto una reazione del genere.

Hikaru, poeta incompreso, lo aveva liquidato con un ‘cretino, sei solo innamorato’.

Taro non era solito mantenere rapporti così stretti dopo un trasloco. Aveva sempre lasciato gli ex compagni di scuola (e squadra) nel migliore dei modi ed era felice ogni volta che s’incontravano ad un torneo, però la cosa finiva lì. In Hikaru c’era qualcosa di diverso, che lo aveva spinto a scrivergli non appena era arrivato nella nuova casa, a mandargli foto del paesaggio e perfino dei suoi nuovi amici. Parlare con lui era facile e parlargli di Tsubasa lo era ancora di più. Non era sicuro di poterlo definite un ‘migliore amico’ - ma forse solo perché la sua idea di ‘migliore amico’ si era tarata sul rapporto costruito con Tsubasa, di cui aveva compreso solo ora la vera natura. In ogni caso, Hikaru era il genere di persona da chiamare in lacrime dopo quattro giorni e tre notti passate ad evitare il ragazzo di cui non sei innamorato e che domani ti toccherà vedere per forza durante gli allenamenti.

‘Parlagli, scemo. Cosa credi, che non sia innamorato come un pollo anche lui?’

Alla fine, contro ogni previsione, la scossa l’aveva data suo padre annunciando che, a fine campionato, si sarebbero trasferiti. Nulla che Taro non si aspettasse, ma la prospettiva di sprecare altro tempo prezioso rimanendo in quel limbo d’incertezza lo stava uccidendo. Era trascorsa più di una settimana – nove giorni, come Taro aveva specificato al telefono con Hikaru, mentre l’altro cercava di non ridere troppo apertamente della sua inettitudine relazionale – dalla famosa doccia. Bisognava fare qualcosa.

La disperazione del momento giustificava il tentativo di farsi dare un consiglio da suo padre – single da circa mille anni, ma l’unico adulto a disposizione di Taro.

« Papà, vorrei parlarti di una cosa. »

« Ma certo. Che succede? »

« Ecco…vorrei parlartene, ma senza parlartene. Mi vergogno un po’. »

« Lo sai, Taro, che puoi dirmi tutto. »

« Non sei tu, papa… È solo che- » Taro deglutisce « C’è questo ragazzo, nella mia scuola. Lui é… speciale. Siamo sempre insieme. Giochiamo a calcio insieme. E ci comportiamo come fossimo migliori amici, ma io… io sento qualcosa. Qualcosa che non so spiegare bene. Pensavo tu magari potessi…capire. E dirmi cosa fare. »

« Oh. »

Il signor Misaki aveva messo giù lo scalpello che stava ripulendo, pronto a focalizzare l’attenzione sul suo unico figlio.

« Taro. Capisco perfettamente cosa si prova, specie alla tua età. Tutte queste emozioni forti che non hai mai provato prima. I tuoi amici che sembrano sempre essere molto più adulti di te, come se sapessero esattamente chi sono e cosa vogliono, mentre tu ti ricordi a malapena come ti chiami. Ma ti svelo un segreto: siamo tutti confusi. L’unica cosa che puoi fare è seguire il tuo cuore, trattarlo con cura, e non vergognarti mai dei tuoi sentimenti. Segui il tuo cuore e fai del tuo meglio. Solo così avrai una chance di essere felice. »


« Mi hai chiesto tu di venire. » aggiunge Tsubasa, a mo’ di scusa, anche se non è chiaro per cosa si dovrebbe scusare, lui.

« Hai perfettamente ragione. Sono stato un’idiota. È solo che non ho mai avuto un amico come te, Tsubasa. Mi sembra quasi un sogno, a volte. »

« Taro- »

« Ho paura di fare un casino. Di- di perderti, di rovinare la nostra amicizia. »

« Non succederà mai. »

« Non puoi saperlo. »

« Invece sì. »

Tsubasa sembra soddisfatto da quell’ammissione, nonostante a Taro sembri di aver fatto ancora più confusione di prima. Il capitano gli si avvicina e gli prende le mani, entrambe, per poi sorridergli come non lo ha mai visto fare, nemmeno quando si parla di calcio. È un sorriso luminoso, dolcissimo, che costringe Taro a calmarsi almeno un po’. Non ha nessuna chance davanti a quel sorriso.

E ora come glielo dico, pensa Taro, come gli spiego che la mia vita è un casino e io sono un casino, che è tutto un casino e dovremmo solo restare amici, anzi, amici di penna, tanto me andrò anche questa volta? Come glielo dico che-

« Pensavo di aver fatto qualcosa di stupido  » inizia Tsubasa « e che tu fossi arrabbiato. Poi ci ho pensato un po’ e mi sono ricordato dell’ultima volta in cui sembrava tutto normale. Dopo l’ultima partita. Mi sono detto ‘oh, magari è quello’, anche se è strano perché non abbiamo fatto niente di diverso dal solito. Almeno credo? Però magari è stato quello. Se ho fatto qualcosa- »

« No! No, non hai fatto niente. »

« Esatto, ho pensato che non faccio mai niente. Ho dato tutto per scontato. Non ti ho detto le cose come stanno, perché mi sembrava che tu sapessi già tutto…che non ci fosse bisogno di parlarti, dirti come mi sento. Ma non credo funzioni così. Quindi te lo voglio dire. Ti voglio dire che, dal primo momento in cui ci siamo incontrati, è stato come ricordarsi di aver sempre cercato qualcuno o qualcosa di fondamentale, ma non lo sapevo finché non ti ho trovato. Che stare con te mi fa sentire felice, più di quando gioco a calcio. E ti ho sognato. Un sacco di volte. E- »

-e Taro non ce la fa più, stremato da quell’ultima settimana – “9 giorni, Hikaru, n-o-v-e” – di lontananza forzata e mani infilate in tasca. Gli si avventa contro e lo bacia. Lo bacia e basta. Ora che non deve più immaginalo o pianificarlo nei minimi dettagli, Taro scopre che, in realtà, baciare il proprio migliore amico è facilissimo, sicuramente la cosa più facile che sia mai capitata a lui. Potrebbe farlo ad occhi chiusi. Lo fa ad occhi chiusi, in effetti, perché baciarsi con gli occhi aperti gli sembra una cosa un po’ bizzarra. Potrebbe continuare a farlo per molto, molto tempo, senza stufarsi. Tsubasa è immobile per i primi dieci o dodici secondi, con le spalle rigide e la schiena dritta. Poi, proprio quando Taro è sul punto di staccarsi e fare i conti con le conseguenze delle sue scelte di vita, qualcosa scatta nella testa del capitano.

Ricominciano a baciarsi, o forse cominciano sul serio, e anche se nessuno dei due ha ben chiaro come funzioni, è tutto più semplice quando c’è il lavoro di squadra. Taro è abbastanza sicuro che la lingua di Tsubasa sia nella sua bocca, adesso, e che la mano che si sta facendo strada maldestra sotto la maglia del numero dieci sia la propria. Tsubasa fa un verso un po’ strozzato e la mano di Taro si muove ancora, desiderosa di sentire di più; le sue dita si fermano sullo stomaco, appena sopra il bottone dei jeans, e Tsubasa, questa volta, sospira.

« Vuoi- » Taro deglutisce « Non so bene come si fa. »

« Nemmeno io » ammette Tsubasa, con un sorriso timido « Però credo si faccia meglio senza vestiti addosso. »

Tsubasa è riuscito a farlo ridere, in un momento in cui Taro ha il cuore in gola dall’agitazione e gli trema tutto, anche la punta del naso. E lì, in piedi davanti a quello stupido ragazzino ossessionato dal calcio, ha la certezza di essere perduto, forse per sempre.

« Tutto bene? »

No, per niente, mi sa che ti amo, è quello che gli passa per la testa.

« Sì, scusa » risponde, invece.

« Posso baciarti di nuovo? »

Taro preferisce gettarsi di nuovo tra le sue braccia e lo bacia lui per primo. Si spostano a piccoli passi verso il letto, senza mai staccarsi, finché Tsubasa ci sbatte contro e vi si lascia cadere.

« Ok, » proclama, non senza una leggera nota di imbarazzo nella voce « comincio io. »

Ci vorrebbero corsi extracurriculari o almeno un dépliant illustrativo per spiegarti come si sopravvive al tuo migliore amico mezzo sdraiato sul tuo letto che inizia a sbottonarsi i jeans. Taro l’avrà anche visto cambiarsi decine di volte, negli spogliatoi, ma non è per niente la stessa cosa. Se la prende comoda, il capitano, forse perché non l’ha mai fatto prima oppure perché la faccia di Taro è abbastanza eloquente e sta iniziando a prenderci gusto, chi può dirlo. Taro spera di non star sbavando, perlomeno, anche se la sensazione è quella.

Rimane imbambolato con le ginocchia premute contro il bordo del letto, anche quando Tsubasa si è già tolto i boxer, liberando l’erezione che Taro aveva sicuramente sentito mentre si baciavano, ma che il suo cervello si era rifiutato di computare. Ed ora la stringa di informazioni che rimbalzavano tra le sue sinapsi erano qualcosa tipo ‘Tsubasa, sul mio letto, nudo’.

« Taro..? »

« Non- non so nemmeno spiegarti cosa sta succedendo nella mia testa in questo momento. »

« Dentro la tua testa non vedo bene » Tsubasa inclina la testa di lato e fa un sorrisetto furbo « ma il resto mi sembra a posto. »

Tsubasa allunga un braccio e gli preme il palmo della mano contro il basso ventre, facendo sussultare l’amico. Non che Taro sia sorpreso, ora che ci riflette, ma quasi non si é accorto di essere così eccitato. La mano di Tsubasa gli provoca una fitta di piacere indescrivibile, nonostante gli strati di stoffa, e per un attimo il suo cervello è completamente annebbiato. Spinge il bacino in avanti, inseguendo quella sensazione, e Tsubasa pare deliziato dalla reazione. Subito si prodiga per liberarlo dai vestiti, poi lo prende per i fianchi e se lo tira addosso. Solo allora Taro si riprende dalla sua trance temporanea e scoppia a ridere; ridono insieme, sfilandosi le rispettive magliette, e poi iniziando a toccarsi di nuovo, quasi storditi dalla felicità di trovarsi pelle contro pelle. Taro cerca tutti i punti in cui si ricorda di aver toccato Tsubasa, quella volta nelle docce, e ci preme sopra le labbra. Uno è appena sopra l’inguine e non riesce più a staccarsi. Succhia la pelle delicata, poi la morde, e ancora, ci passa sopra la lingua, indeciso sul da farsi. Non ha il coraggio di andare più in basso, non questa volta; perciò, alla fine si tira su e torna a baciare il suo capitano sulle labbra. Così, guardandolo negli occhi, si sente abbastanza intrepido da infilare una mano tra i loro corpi e cercare l’erezione dell’altro. Quando inizia ad accarezzarla, Tsubasa sgrana gli occhi; ma dopo un attimo, da bravo compagno di squadra, lo imita. Se Hikaru sapesse, è l’ultimo pensiero coerente che gli balena in testa; se Hikaru sapesse quanto siamo disgustosi, in perfetta sincronia anche adesso, mi prenderebbe in giro finché non muoio. Eppure funziona davvero: iniziano a masturbarsi a vicenda, trovando subito lo stesso ritmo, senza mai perdere il contatto visivo. Taro non riesce neanche più a sentirsi in imbarazzo, mentre si beve ogni singola espressione di Tsubasa, fino all’attimo prima dell’orgasmo, quando la sua testa si svuota di ogni cosa che non sia una sensazione di puro, perfetto piacere. Non è sicuro di chi dei due venga prima, e ignora l’ipotesi che siano venuti insieme, perché quello sarebbe veramente troppo; si abbandonano uno addosso all’altro, esausti e un po’ disgustosi, felici in un modo in cui Taro non sapeva ci si potesse sentire.


« Mi sembri più tranquillo. »

« Mh? »

Taro guarda fuori dalla finestra con aria sognante da quando l’uomo è rientrato a casa. Sospira, poi si volta per rispondere al padre.

« Scusa, ero distratto. Dicevi? »

« Sembri più tranquillo. Hai risolto tutto? »

« Sì, direi di sì. Ho seguito i tuoi consigli. »

« Oh. »

Il signor Misaki sgrana gli occhi, cercando di contenere l’emozione.

« Non mi dirai che… »

« Beh, diciamo di sì. »

« No! » esclama l’uomo, gli occhi lucidi « Il mio bambino! L’hai fatto sul serio? Tesoro, avresti potuto chiedere aiuto, lo sai vero? »

Il figlio arrossisce di colpo, fissandolo con aria perplessa.

« Dai papà, esagerato… »

« Lo so, lo so. Sei grande. La cosa importante è che tu abbia preso le dovute precauzioni… »

« Papà! »

« …lasciamelo dire, Taro. Lo sai che devo. E soprattutto che tu ti sia divertito. »

A quelle parole, Taro per poco non cade dalla sedia.

« Grazie del supporto, davvero. Possiamo non parlarne mai più per favore? »

« Va bene, va bene. E lui dov’è adesso? »

« A casa, dove vuoi che sia? »

« A casa…sua? »

« A casa di chi dovrebbe essere? »

« E ce lo hai portato tu? »

« No, è tornato da solo. »

« È tornato da solo?! »

« Papà » Taro aggrotta le sopracciglia « Ma di che stai parlando? »

« Di quello che stai parlando tu! Del tuo primo omicid- »

« Sei impazzito? Ti ho detto che sarebbe passato Tsubasa, oggi. »

« Appunto. Non è quel ragazzo che ti faceva, cito testualmente, ‘sentire qualcosa’ e di cui mi hai parlato? »

« Sì, papà. » Taro rotea gli occhi con aria esasperata « Tipo le farfalle nello stomaco. »

« Oh, certo, solo che… » il signor Misaki è visibilmente dispiaciuto, anche se fa del suo meglio per non darlo a vedere « …sembravi così eccitato! E io ho sperato che si trattasse di altro, ecco tutto. »

« Papà, lo sai. Ne abbiamo già parlato. Io amo il calcio, non gli omicidi. Sono certo che il tuo lavoro sia fantastico, ma non è la mia strada. »

« Lo so, tesoro. Lo so. E sai che ti vorrò sempre bene e ti supporterò, qualsiasi strada tu voglia seguire. »

« Grazie, papà. Ti voglio bene. »

« Ti voglio bene anche io, figliolo. »