Chapter Text
ATTENZIONE: Questa fanfiction appartiene ad una serie che segue il mio filone relativo al Post-Shiganshina. Non ha senso se prima non avete letto questa
Niente più ti lega a questi luoghi (Neanche questi fiori azzurri)
I Parte
“Capitano,”
Va tutto bene.
Ci sono volte in cui Erwin lo chiama anche così.
In pubblico, ad esempio. Quando solleva il mento sulla difensiva e il suo respiro diventa sottile, quasi impercettibile sotto quell’uniforme che sembra voler celare al mondo il suo bisogno di ossigeno.
È solo tenendo questo a mente che Levi si volta.
O forse, lo fa per un’altra ragione a cui non vuole più di tanto pensare.
Ma non importa.
“Capitano Levi—?"
Indugia troppo. La voce, ma anche la mano piegata che vede tendere verso di lui, colma di qualcosa di prezioso.
Levi tira un sospiro.
“Il comandante sta male, capitano.”
‘Il comandante sta male, capitano. Finalmente l’ho trovata, capitato Levi, il comandante è ferito, i suoi organi sono esposti, sta male, il comandante sta male, il comandante sta male, deve venire con me, finalmente l’ho trovata, capitano Levi, l’emorragia non si ferma, il comandante sta male, il capitano sta male, non è diserzione, il comandante sta male, forse…con il siero…ho pensato che…, il comandante sta male, forse… con il siero…, il comandanteilcomandanteilcomandante—'
“Capitano—”
Ci sono volte in cui Erwin lo chiama anche così.
In pubblico, o tra le lenzuola, quando vuole fare il sarcastico mentre, cazzo – non sapeva neanche fosse possibile muovere la lingua in quel modo.
Non lo fa mai in occasioni normali però, quello no.
‘Capitano Levi’.
Suonerebbe ridicolo anche a se stesso: sarebbe come dar valore a qualcosa che non esiste, uno stratagemma, un cavillo burocratico per tenerlo al suo fianco anche quando non avrebbe voluto; anche quando all’inizio le sue dita strofinando le lame prudevano, e tremavano, e sembravano dirgli ‘infilzalo, infilzalo, Levi – infilzalo. Questo maledetto bastardo vuole solo la tua forza, vuole solo la sua vendetta, ti spezzerà il cuore, ti renderà suo schiavo per tutta la vita, per cui infilzalo, Levi! Sgozzalo come un vitello, bagnati del suo sangue, piscia sul suo cadavere!” ma lui non lo ha fatto.
È stato subito troppo tardi.
Erwin le dita le ha strofinate invece sul suo fianco nudo e ad ogni gemito nell’aria umida e colma di respiri, ha brillato un ‘capitano Levi’, ‘capitano Levi’, ‘capitano’, ‘capitano’.
“Capitano,”
Le mani premute sulle orecchie hanno il suono del mare. Erwin ha mai saputo che suono ha il mare?
Probabilmente, lo avrebbe trovato insopportabile quanto lui.
“Il comandante Zoë sta male.”
Levi solleva la testa. Il cielo è così terso che il tramonto sembra come aver catturato la trasformazione del Colossale immortalandola in un dipinto eterno.
‘Ti ricordi?’ sembra dirgli. ‘Smettila di giocare, ti ricordi cos’è successo, no?’
‘Ti ricordi anche di quel fottuto bastardo di Moblit Berner, sì?’ (ah, già – lui non l’ha visto. Lui l’ha solo sentito da qualcuno. Una storia davvero terribile snocciolata con la voce atona e fredda di chi non si fida a parlarne diversamente, di chi teme che le parole possano rendere tutto più vero, più concreto, e no – non può permettersi nulla di azzardato. Non adesso).
“Prenda le sue pillole e mi segua, signore.”
Lascia l’erba su cui è accucciato, barcolla. Il formicolio che sente alle gambe è il prezzo per esser stato rintanato in quel modo per chissà quanto tempo, e non si lamenta – è disposto a pagarlo.
“Capitano Levi, le sue pillole—"
È sempre così, come se mancasse qualcosa.
Ma Levi ha come una voragine in petto, e non sarà certo quel qualcosa a fare la differenza, si dice.
“Dannazione, non può davvero—” Ancora, indugia troppo, “Non può davvero starsene qui, così, senza fare nulla!”
Indugia decisamente troppo, per essere Erwin.
Levi si impone di respirare profondamente, perché qualcosa nella sua testa annebbiata gli dice che è così che deve fare.
È così che gli è stato detto di fare, forse proprio da qualcuno non-Erwin a sufficienza da potergli ancora dare ordini e fare ordine.
“La prego di perdonarmi.”
Il rammarico è sincero; di non essere Erwin, immagina. Poi, di tutto il resto.
“P-prenda le sue pillole e mi segua, signore. La prego.”
Levi si impone di respirare profondamente.
Perché non sa dire cosa accadrebbe se non facesse così mentre le due pillole ruzzolano sul suo palmo.
‘Grazie, Levi.’
Tossisce un paio di volte, come ogni volta che quel sapore dolciastro gli si dirama sul palato e la goccia di crudeltà al suo interno cola in gola, vischiosa e prepotente.
Continuare a respirare come gli è stato imposto fa un po’ più male adesso, tutti sembrano saperlo.
La coperta che il non-Erwin gli fa planare intorno alle spalle sembra saperlo, l’acqua che il non-Erwin gli fa bere accompagnando la fiasca fino alle sue labbra, sembra saperlo.
Tutti sanno, nessuno fa niente.
Tutto intorno a lui può essere non-Erwin, niente intorno a lui gli concede di essere non-Levi.
“La ringrazio, signore. Venga con me, la accompagno.”
Il corpo contro cui si ritrova stretto è grande e possente, non capisce perché stia tremando in quel modo.
Non capisce di cosa possa ancora avere così paura.
***
“È sveglio?”
Capisce dove si trova dal momento in cui riapre gli occhi, e la chiassosa tappezzeria della carrozza invade la sua vista.
Se avesse ancora dubbi, c’è pur sempre la febbre (‘febbre da astinenza, la conosci bene’ – ripete una vocina dentro di sé) il fastidio per la luce (…‘fotofobia’, già), quell’organo inutile sotto al suo petto che colpisce impazzito il torace come uno stronzo che vuole uscire, e che sembra dirgli ‘ma non dovevi sacrificarmi!? Che cazzo ci faccio ancora qui!?’ (‘tachicar—)
“Come sta, capitano?”
Oh già, ci sono anche quelli. I ‘come sta?’.
Come sta? Capitano, come sta? Comandante, come sta il capitano Levi? Levi, come stai? Levi? Mi senti? Levi, come stai?
Levi porta una mano al viso, ritrovarlo ancora sotto i polpastrelli è una strana sensazione.
Chiude gli occhi, ancora per un po’.
Giusto per non vedere il volto pallido di Jean Kirschtein fissarlo con occhi tristi e poi mettersi a rimestare nella borsa che ha accanto.
“Mi hanno detto di darle questa quando si sarebbe svegliato. Credo sia per la febbre…”
E per la fotofobia, la tachicardia, i brividi…
“Hange ha proprio una passione per questi grumi di porcherie, eh?”
“Così sembrerebbe.” Jean sorride un po’. Per lo meno, smette di guardarlo come fosse colpa sua.
Levi prende la pallina tra le dita, è dello stesso grigio insalubre che hanno le cose morte– le labbra di Erwin a Shiganshina, ad esempio – o forse è il disgusto che prova a fargliela sembrare tale.
La mette in bocca prima che la nausea lo afferri, rifiuta con un cenno l’acqua timidamente offerta dal caposquadra, poi si rannicchia di nuovo sul sedile della carrozza, stretto nella coperta ruvida che gli gratta il mento.
“Quanto tempo sono stato fuori questa volta?”
Jean cambia posizione, va indietro con la schiena, strofina le palpebre.
“Circa dieci giorni, ma è difficile stabilirlo con esattezza.”
Altri brividi si aggiungono a quelli che già lo scuotono quando Jean inspira in quel modo orrendo prima di continuare.
“Alcune reclute sostengono di averla vista per qualche ora al quartier generale, ma nessuno può dirlo davvero. Per ordine del comandante, tutto l’alto comando è stato coinvolto nelle ricerche dividendosi tra le aree boschive del Wall Maria e quelle del Wall Rose, almeno fino a quando—”
Si interrompe. Levi capisce di dover riaprire gli occhi.
“Fino a quando non è subentrato il comandante Pixis. Dopo, l’ordine è diventato quello di perlustrare ovunque.”
“Cos’è successo ad Hange?”
Insieme alla domanda (la ‘domanda’), nell’aria prende vita anche qualcos’altro.
Gli sbuffi del suo fiato malato si cercano e si mescolano tra loro come la tempera di un dipinto; prendono la forma del suo volto, delle sue palpebre violacee impegnate a lottare contro il torpore chimico che sembra intimargli di tacere, di risparmiarsi almeno questo, almeno questo.
È davvero patetico.
Domandare di Hange in questo momento è davvero, davvero patetico.
Jean sembra non aspettare altro.
“Si è ammalata.”
È tutto ciò che dice, almeno all’inizio.
Come un attore che dimentica la sua parte a causa della fretta, o dell’emozione, o chissà.
Poi a poco a poco si riprende. Schiarisce la voce, le dita intrecciate davanti al mento sono talmente strette da perdere colore eppure, anche così, non riescono a smettere di tremare, e respira Jean, respira, respira (e Levi ne segue il ritmo, anche lui respira, respira, respira – ‘dispnea’, ‘attacco di panico’, ‘è sempre l’astinenza, è tutto a posto, Levi – va tutto bene, passerà presto.’).
Apprende che Hange si è ammalata al punto da cadere da cavallo e giocarsi una spalla.
Questo dopo giorni in cui ha abbandonato qualsiasi onere militare e costretto sé stessa e il suo esercito a perlustrazioni senza sosta, senza riposo, oltre ogni limite dell’umano.
Hange Zoë è crollata.
Levi non fatica a immaginarla cadere: dev’essere stata così banale, così clamorosamente tale e quale a qualsiasi altro soldato caduto da cavallo che ha visto nella sua esistenza; non ha faticato neanche con Erwin, del resto: l’eccezionalità di cadere da cavallo mentre parte dei tuoi organi vengono portati via dalle rocce cessa di esistere nel momento in cui ricordi che quelle stesse rocce hanno sterminato così tutti, dal primo all’ultimo, senza distinzione alcuna.
“Ed è quasi una fortuna che sia accaduto,” dice Jean, “una vera e propria fortuna.”
Levi incrocia il suo sguardo per alcuni istanti, poi lo distoglie e si ripromette di non farlo più.
Jean Kirschtein ha gli occhi lucidi di una colpa e di un orrore che non gli spettano, e Levi non vuole vederlo, non vuole sentirlo.
Si sente già sufficientemente patetico così.
***
“Come sta, capitano?”
Armin è il primo e l’unico a rompere il silenzio.
Ha ancora la voce esile di un bambino, in fondo. E i bambini non vanno d’accordo con i silenzi, specie quelli che sanno di rimprovero.
Non lo degna di attenzione mentre con un’uniforme appena stirata addosso e i capelli ancora umidi avanza lungo il corridoio sotto sguardi attoniti e appiccicosi. Li ha già visti. Tutti.
Più e più volte.
Sono tali e quali a quelli che ha immaginato chiusi (a doppia mandata) fuori dalla porta della sua stanza ogni qualvolta Hange lo abbia riportato a casa (a ‘casa’, ‘sei a casa adesso, Levi’).
Povera Hange. Lo ha schermato da tutto, tranne che dalla lucidità imposta alla sua mente.
“Il comandante è già stato informato del suo rientro.”
“Bene.”
Va avanti ancora, e Jean si affretta a raggiungere la porta. Ha il piglio di chi finge di non aver ancora capito che non può sempre evitare il peggio.
Non gliene fa una colpa, è giovane. È giusto che ci creda.
“Non può entrare adesso, il medico la sta visitando.”
Levi entra lo stesso.
Apre la porta quel che basta, la richiude alle sue spalle.
“Levi.”
Prima di guardare in sua direzione, Levi cerca altro.
Dettagli, frammenti, piccoli pezzi di cose. Esistenze ibride sparpagliate in giro.
Lo scrittoio ordinato come lo teneva Erwin anche se adesso non è più di Erwin, le tende polverose tirate a schermare i bagliori del mezzogiorno, stivali pigramente afflosciati uno contro l’altro, bende, garze – appunti e tinture.
Linee di inchiostro sbiadito che attraversano in lungo tutti i cassetti sino a terra.
Quei libri che Erwin aveva impilato per qualche ragione sul mobile accanto al camino non li ha più rimessi a posto nessuno, ed è fastidioso.
Perché è come se non fosse mai andato via per sempre; come se dovesse tornare da un momento all’altro smettendo di essere un’esistenza smembrata in giro, fuori e dentro di sé, senza confini.
“Levi—”
“Cos—” Il dottore sussulta. Si strappa dalle orecchie lo stetoscopio come un ladro scoperto a rubare.
“Cosa ci fa qui?!”
Ed è tenero, perché si aspetta davvero che Hange stringa al petto nudo il lembo di lenzuolo sgualcito che frenetico le ha avvicinato, mentre lei vuole solo fissarlo.
Immobile e in silenzio, come fa sempre.
Come fa ogni volta che lo riporta a casa, e come ogni volta Levi pensa che sia il suo modo di ricomporlo, di riassorbire in fretta ciò che teme di aver già cominciato a dimenticare.
È solo un suo pensiero, una speculazione insensata – ma il fatto che Levi lo abbia sempre sentito nella carne, quello sguardo, beh – è tutto vero.
E le sue mani grandi sulla nuca, il sospiro soddisfatto esalato contro il suo collo.
L’insidiosa invasione delle sue braccia ovunque, a volte è stata l’unica crudeltà in grado di confermargli di avere ancora un corpo, di essere ancora tutto intero.
Di avere confini.
“Sei tornato—”
Finisce appena la frase, poi riprende a tossire curvata su sé stessa, ed è un bene, pensa Levi.
È un bene che le sue mani premute sulla bocca sembrino adesso così grandi da riuscire a coprire gran parte del volto, perché Levi ha bisogno di tempo per abituarsi a vederlo, quel viso smagrito; quell’assenza di carne sulle guance, quelle tinte giallastre intorno agli zigomi affilati e grigie sotto l’occhio superstite.
È Hange, certo – la riconosce ancora, e già questo dovrebbe farlo inorridire.
È una Hange costruita dai suoi giorni di assenza, modellata da tutto ciò che lui non ha saputo fare né mantenere.
“Sapevo che saresti tornato—” azzarda con voce morbida, quando in realtà dovrebbe dire ‘guarda cosa mi hai fatto, stronzo! Guarda come mi sono ridotta!’.
Poi, la tosse le mozza il fiato, i rantoli premono perché taccia.
“Beva questo, comandante.”
Esita a portare alle labbra il bicchiere che il medico le ha messo tra le mani, o forse non ne ha la forza, ma credere che non voglia berlo come tutti i medicamenti che non siano stati prodotti dalle sue mani, fa meno male.
“Tutto d’un fiato,” raccomanda paternalistico alla smorfia apparsa dopo il primo sorso.
Aggiunge qualcos’altro al secondo e al terzo, chiude il becco solo quando vuota il bicchiere.
Levi osserva la scena in un silenzio lugubre; le mani in tasca, la mente sgombra da qualsiasi pensiero utile, da qualsiasi cosa possa avere senso dire, fare, o anche semplicemente pensare di fronte ad una Hange che non dovrebbe essere Hange ma, al massimo, qualcuno che non ha mai visto.
Qualcuno che guardandolo, sarebbe spinto con sicurezza a dire ‘no, non so chi sia’, perché a nessuno di sua conoscenza avrebbe mai permesso di ridursi in quello stato a causa sua.
A nessuno di sua conoscenza avrebbe mai permesso di somigliare così tanto a quel ricordo seppellito nelle memorie di infanzia, a quelle labbra diafane, baciate da tanti ma mai dal sole, quelle mani dalle ossa sporgenti che lo hanno accarezzato, e cullato, e poi abbandonato nell’oscurità quando, forse cedendo a qualcosa di più bello, ha chiuso gli occhi stanchi per non riaprirli mai più.
Figuriamoci ad Hange.
Che lo ha negato all’oscurità così tante volte da averne perso il conto.
“La pregherei di uscire, devo finire di visitarla.”
“Può restare—” Leva esausta dal fondo del suo cuscino prima ancora di aver ripreso fiato.
Il dottore si guarda intorno, cerca qualcosa in giro per la stanza che fatica a trovare.
Sosta per un po’ sul suo sguardo, ma a giudicare dalle rughe che gli affollano la fronte, non trova nulla neanche lì.
Levi ruota il bacino.
“Aspetto qui fuori.”
“Ho detto di no.” Le lenzuola si increspano sul petto di Hange, lì al centro – come se davvero le dita potessero fermare quel dolore che conosce bene anche lui, “Resta.”
“Comandante, devo portare a termine la visita e—”
“Levi può restare.”
Levi non sa se restare può servire a qualcosa, adesso che a tendere la pelle del volto madido di Hange non è la solita determinazione, ma paura.
Di quelle infime, sottili – di quelle che rendono bisognosi di qualcuno forte abbastanza da sradicarle via e quel qualcuno, non è lui.
Il fatto che il medico lo fissi scuotendo il capo sembra darne la giusta conferma.
Avanza lento verso di lui, si prepara a confidare qualcosa di spiacevole.
“Capitano, sono la febbre e i farmaci a farla parlare in questo modo. Ho dovuto somministrarle degli antidolorifici potenti per poter rimettere a posto quella spalla. La prego, si accomodi fuori.”
Levi sente la mandibola serrarsi, l’aria bloccata tra i denti arretrare in gola.
Forse quel vecchio ha ragione. Forse è vero che è rimbambita dai farmaci: il fatto che lo stia fissando come aveva fatto Erwin a Shiganshina, come se da un suo cenno o da una sua parola potesse dipendere ogni cosa, dovrebbe essere un segno inequivocabile di tutto ciò.
Che Hange lo fissi in quel modo anche quando è nel pieno delle proprie facoltà mentali, è solo un dettaglio che sceglie di dimenticare.
“Ah, al diavolo! Fate come volete.”
È la resa del dottore, che di quel silenzio inerte, ne ha pieni i coglioni.
Rauchi e confusi, i fiati di Hange si sfaldano nell’aria piena adesso dei loro passi, e perdono intensità.
Levi azzarderebbe a dire che vi è del sollievo anche nel gemito con cui sorretta dal medico, Hange torna seduta.
“Non-non così distante, vieni qui, fatti vedere—”
La voce rotta dai rantoli non è la voce di Hange, ma Levi fa finta che lo sia, e le obbedisce lo stesso.
Rinuncia alla sedia, prende posto sullo spicchio di letto poco distante alle sue caviglie, e non riesce a credere di star permettendo a quella mano gracile di raggiungerlo e tastare clinica la sua fronte, poi il collo, poi la carotide e poi chissà cos’altro abbiano le nocche aguzze da grattare più e più volte lì sulla sua guancia, dannazione.
In caso non se ne sia accorta, non è lui il malato lì (o almeno adesso, può far finta non sia così –).
“Hange,” infastidito, Levi tira indietro il collo.
Si pente di aver fermato quel polso già nell’istante in cui la sua mano lo cinge e si accorge di riuscire a chiuderlo per intero, ma a lei non importa.
“Jean ti ha dato le medicine…”
“Comandante, respiri e cerchi di non parlare.”
“Ti ha dato le medicine, non è così?”
“Comandante.”
“Sì,” risponde Levi, “Sì, ma adesso sta’ ferma e fa’ silenzio.”
La mano sulla spalla di Hange, più che una cortesia al medico, è un modo per togliersi di dosso i loro sguardi pretenziosi.
Però poi sotto il suo palmo, la tensione dei muscoli la sente cedere davvero.
“Per fortuna—”
Pallide da sembrare trasparenti, le guance di Hange si illuminano e si alzano portando con sé anche angoli della bocca che così distesi, danno vita ad uno di quei suoi sorrisi un po’ storti, un po’ irregolari, che Levi ha già visto varie volte nella Hange che conosce.
“Per fortuna, stai bene Levi—”
‘Per fortuna sei a casa, adesso.’
E sono così profondi quei sospiri che il suo petto magro esala che a un certo punto, il medico non ha altro da auscultare.
Rimuove lo stetoscopio dalle orecchie, si dichiara tacitamente soddisfatto.
“Può rivestirsi. Faccia attenzione a quella spalla.”
Hange si limita solo a sprofondare la schiena sul materasso, sfinita.
Forse avrebbe rinunciato anche alle coperte, se non si fosse preso il disturbo di riaccompagnarle sotto al mento per lei.
Non sa da cosa dipenda, non sa neanche cosa gli abbia dato questa autorità, in tutta onestà: sa solo che quando il medico si apparta di qualche metro con la scusa di lucidare i suoi occhiali con una pezzetta e organizzare mentalmente il da dirsi, Levi lo raggiunge.
“È una polmonite bilaterale. O meglio, un principio di questa. Bisogna dunque fare molta attenzione.”
Se non fosse già crollata in un sonno artificioso, Hange avrebbe trovato modi più singolari per dire la stessa cosa, ma non importa.
A Levi basta sapere che le porcherie che gli ha già allineato sul comodino insieme alle indicazioni serviranno a guarirla.
Il resto, sono solo suoni messi in fila alla quale qualcuno ha voluto attribuire loro senso compiuto.
“Ciò che mi preoccupa di più però, non è la sua polmonite, e neanche la sua spalla.”
C’è qualcosa di insolito sotto i suoi polpastrelli adesso.
Potrebbe dire che sia lo stesso fremito che sentiva accarezzando lame destinate a Erwin, ma non è così. Questo è più crudele. È più simile alla sensazione di vuoto che arriva quando qualcosa sfugge di mano e non si fa in tempo ad arrestarne la caduta.
Levi china il capo. Mentre sopra la sua testa il dottore snocciola discorsi netti e lineari, si accorge di aver stretto i pugni.
Ed è incredibile come riesca a far compassione anche a sé stesso, in certi momenti.
***
“Sono abbastanza sicura che quella roba non sia sul menù degenti.”
La voce impastata e lenta arriva insieme a dei colpi di tosse, risvegliati dall’odore forse troppo aggressivo del piatto che ha portato con sé.
Levi si ferma un attimo a guardarla, mentre ancora carica di sono, Hange volta la testa dall’altro lato del cuscino.
Lo fa più per avere la certezza di essere il vero destinatario della frase, che per piazzarle quello sguardo vagamente torvo.
Lei sarà pur abituata alle frasi rantolate fuori dai deliri febbrili e psicotici (‘non è nulla di tutto questo, Levi – prendi le tue medicine e vedrai che starai bene’), ma per lui, essere quello rimasto nella parte conscia del mondo, è una cosa nuova, e Hange sembra capirlo.
Prima di richiudere l’occhio contro il cuscino, letargica e immobile, gli sorride un po’.
“Forse ho perso l’occasione giusta per far assaggiare anche a te le schifezze che ti ostini a far propinare ai poveri disgraziati finiti in infermeria.”
Levi riprende possesso del suo angolo di letto. Resta in silenzio mentre osserva Hange liberare in piccoli tocchi la profonda boccata di ossigeno che, caparbia, ha voluto prendere dalle narici, in una sfida che i suoi polmoni hanno già perso in partenza.
“Fa’ piano.”
Il braccio dietro la schiena, Levi, lo fa scivolare prima che tenti di tornare seduta da sola.
Si affretta ad impilare i cuscini, finge che l’insalubre affilatezza delle vertebre sotto il suo palmo non lo sconvolga più di tanto.
È tutto a posto, si dice. Hange è ancora Hange: è quella di sempre. Già che se ne stia lì, nuda, a rimirarlo inebetita mentre i suoi seni madidi di sudore brillano della stessa luce del tramonto al di là dalla finestra, ne è una prova tangibile.
Levi è sicuro di aver stretto le sopracciglia più di quanto vorrebbe quando, ostentando una assuefazione che non ha, fa scorrere intorno alle sue spalle la camiciola rimasta abbandonata sulla spalliera della sedia, richiudendone in punta di dita i bottoni all’altezza del petto.
“Ho sempre pensato che fossi in grado di preparare solo il tuo tè.”
I colpi di tosse che la interrompono sono il giusto castigo, pensa Levi, cinico solo nella sua testa: il modo in cui fa aderire piano la spalla malandata contro i cuscini, racconta altro.
“E io ho sempre pensato che ti nutrissi solo di travasi di bile e delusioni.”
Attende paziente che i rantoli si estinguano, solo allora allontana le mani dalle sue braccia.
“Direi che siamo pari.”
Levi fa spallucce, “direi di sì.”
Non la guarda mentre le sistema il vassoio in grembo, ma è sicuro stia sorridendo.
Il cucchiaio glielo porge come fosse un pugnale. Lei, lo afferra con la stessa delicatezza che le ha visto riservare solo ai suoi ferri chirurgici, ed è fastidioso già così.
Ma ancor di più, lo è il suo lento rimestare tra le verdure; il minuzioso, beffardo avventurarsi in fondo alla ciotola che porta in superficie cucchiaiate cariche di tutto, e che poi, puntualmente, lascia disperdere in una sfumatura grigiastra e confusa, uno, due, tre volte di seguito, come fosse un rituale.
Se il lieve tremore del suo polso diafano non rendesse la fragilità di quella Hange più palpabile di quanto sia disposto ad accettare, Levi le avrebbe già detto di piantarla.
“Non devi mangiarla per forza, se non ti piace.”
“No, no – mi piace. Sembra buona.”
Solleva finalmente il cucchiaio alle labbra; per qualche ragione, Levi distoglie lo sguardo.
“Quei farmaci devono averti rimbambita per bene, allora.”
Hange inarca il sopracciglio scettica, soffoca dei colpi di tosse inaspriti dai soffi che manda al cucchiaio.
“Non pensavo qualcuno usasse ancora il laudano come soppressore della tosse.”
"Il dottore dice che stai male.”
La tira fuori così, senza filtri. Come per tutto il tempo ha sfrigolato sulla sua lingua per uscire.
Fuori luogo e fuori da ogni accordo.
Il labbro superiore di Hange è appena affondato nella brodaglia fumosa.
La trattiene un po’ nel palato, prima di mandarla giù.
“Cosa ti ha detto?”
Lavora intorno ai bordi della scodella, raccoglie attenta dell’altra zuppa. Non si scompone.
Levi si lecca le labbra secche, poi le stira nervoso.
“Ha detto che sei deperita, che non mangi da chissà quanto tempo, e che…” fa una pausa, guarda di nuovo altrove, rielabora. “Che non durerai a lungo se continuerai di questo passo.”
E si immagina con un volto talmente accigliato, talmente spento, teso e scavato, che se quel medico entrasse nella stanza adesso, con molte probabilità, lui sarebbe il prossimo che definirebbe come ‘ad un passo dalla morte’.
“È per questo che sei così pallido? Cominciavo ad essere preoccupata…”
Rabbrividisce quando la mano di Hange raggiunge i suoi zigomi.
Vorrebbe raccontarsi che è per il tocco improvviso, per il frastuono del cucchiaio abbandonato contro il bordo sbeccato della ciotola, per il fastidio di averle mostrato troppo di quell’angoscia brulicante– ma la vera ragione che gli azzanna lo stomaco, risiede in quelle ossa che si profilano sotto la pelle raggrinzita; in quelle dita scheletriche tornate a tastarlo, così, come se niente fosse.
Come se non fossero così simili a quelle che è solito a farle ritrovare su sé stesso dopo i suoi giorni altrove, e che lei sa gestire, lei sa rimettere a posto, e—
“Non scherzare,” si scolla la mano di dosso, la riaccompagna al vassoio, inasprito.
Contro ogni sua aspettativa, Hange non insiste. Non cancella però il sorriso divertito, lo stesso che le accentua la stanchezza sul volto e la fa sembrare ancora più debilitata.
Ma lei non sembra saperlo e si crede rassicurante.
Proprio come lo era un tempo ormai di un’altra era.
“Ho solo una leggera polmonite e una spalla lussata. Ho curato disgrazie peggiori.” dice, tornando ad abbandonare la nuca contro il cuscino. Si concede un paio di colpi di tosse.
“Il medico non sembra pensarla così.”
Levi le porge ancora una volta il cucchiaio, Hange lo riprende senza indugio come ad usare ogni mezzo a sua disposizione per sfatare le sue incertezze.
“Ti sembra così affidabile come medico, quello?”
“Lo ha scelto Pixis, non credo sia andato dal primo ciarlatano di merda e te lo abbia portato qui!”
Enigmatica, Hange ci pensa un po’, come a voler rimettere in ordine i pensieri, ponderare ipotesi e osservazioni.
“Sto bene.” dice infine. Si porta alla bocca una nuova cucchiaiata di zuppa, e poi tace.
Non interviene più. Non aggiunge nient’altro, e quel silenzio immobile delude Levi a tal punto da prenderlo come una specie di affronto.
Beh? Tutto qui? - le direbbe.
È stato a tanto così – a tanto così – dal credere che quello sbruffone presuntuoso abbia aperto bocca solo per scoprire che effetto fa sentire il suono della propria voce blaterare scenari funesti verso coloro che sono stati capaci di tornare vivi dall’inferno, ma ora, in quel silenzio inquinato solo dal grattare del cucchiaio sul fondo della scodella, Levi sente il mondo intorno a sé mutare, cambiare le proprie dimensioni, assumere un colore più scuro insieme al crepuscolo che adesso inspessisce i segni d’espressione violacei di Hange.
Il suo respiro monta, si allunga e dilata. Chiede alle proprie labbra di aprirsi e permettergli di uscire quando lui vuole solo trattenerlo, deve solo trattenerlo e no – non va bene (‘non iperventilare. Levi, guardami: non iperventilare’).
Non va bene che quando la tosse torna a scuoterla sino a spezzarla a metà, Levi ne sia quasi – ancora una volta – sollevato.
“Hange.”
“Sto bene.”
Schiaccia le dita contro le labbra, finge che l’ultima cucchiaiata di zuppa non le stia già strisciando lungo il polso.
“Sto bene.” ripete ancora.
“Ehi, ora basta parlare—”
La mano tra le scapole ci va da sola. Perché è quello che si fa, no? È così che si placano gli attacchi di tosse, o di nausea, di pianto.
È così che ci si tocca quando non si sa bene cosa fare, pensa Levi.
Ciò di cui non è sicuro però, è che sappia davvero come far sì che funzioni.
Sotto al suo palmo, i polmoni di Hange crepitano e gorgogliano sinistri reclamando l’ossigeno che non riesce a ingoiare, e sono così orrendi che Levi comincia a muovere la sua mano lungo il tessuto che le ricopre la schiena, anche solo per non avvertirli così distintamente.
“Hange, smetti di parlare e respira.”
Carica, forse un po’ troppo autoritario. Hange ha appena finito di mormorare qualcosa che ha il sapore di essere l’ennesimo, fintissimo ‘sto bene’, del resto, e Levi ne ha abbastanza.
Ritira la scodella semi vuota dal suo grembo cedendo alla minaccia di questa di combinare un ulteriore disastro, poi le stringe le braccia.
Non si cura del lamento che le strappa quando incauto, sfiora punti sensibili della spalla bendata.
Si limita solo a riportarla piano ai suoi guanciali, come se niente fosse.
Perché deve già fare i conti con il fatto che per tutto il tempo abbia creduto di sentirla tremare di dolore, ma adesso che è lei ad ancorare le dita intorno al suo polso, si rende invece conto che a vibrare, è lui.
È sempre stato lui.
La osserva mentre concentrata tenta di inalare un’altra boccata d’aria senza tossire.
Sa cosa significa.
“Hange, dannazione, non par—"
“Non potrei non stare bene, proprio adesso che sei tornato, Levi.”
Si mescola al terrore dietro al suo rimprovero, e lo rende vano.
Fine primo capitolo
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Scritta per la Drops Challenge del gruppo Hurt/Comfort Italia - venite a trovarci!
