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Vox Inferi

Chapter 2: Capitolo 1

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Sprofondavo.

L'acqua gelida mi lambiva, il blu scuro dei flutti era l'unica cosa che riuscivo a vedere. Ed era bellissimo, ed era pace.

Avrei chiuso volentieri gli occhi e mi sarei abbandonato alla sensazione di silenzio e serenità, se i miei polmoni non avessero iniziato a reclamare l'ossigeno. L'istinto di sopravvivenza ebbe la meglio e iniziai a scalciare e agitare le braccia. Risalii, con la luce che si faceva più intensa e tingeva l'acqua di una sfumatura sempre più rossa.

Quando emersi, il cielo sopra di me si aprì cremisi come il sangue e mi abbracciò in tutto il suo funesto splendore. Che storia era quella? Che fine aveva fatto l'azzurro?

L'odore nauseabondo di fogna mi riscosse e mi affrettai a nuotare verso la riva, lo stomaco che si torceva dal disgusto. Ero finito in un canale di scolo. Ma che stava succedendo? Come c'ero arrivato lì dentro?

Mi issai sul cemento e mi tirai su. Vomitai due, tre volte, senza però che mi uscisse niente. Avevo le viscere attorcigliate, gli arti molli e la testa pesante, troppo pesante. Inspirai brusco, imprecai tra i denti e rimasi per un momento accartocciato su me stesso, occhi chiusi e mente concentrata.

Cos'era accaduto? Mi ero forse sbronzato? Non mi ricordavo un cazzo.

Calma, calmati.

Le gambe funzionavano, le braccia pure. Lo stomaco stava tornando al suo posto, i sensi si stavano stabilizzando. Andava tutto bene, non avevo niente di cui lagnarmi. A parte un atroce mal di cervello, ero un fiore di campo. Forse non così profumato, a giudicare dal tanfo che emanavo insieme al resto del circondario, però ero un gioiello di salute. Sì. Dovevo solo inspirare, ricompormi e stamparmi il solito sorriso noncurante in viso che tanto rassicurava la gente. Non avevo appena fatto una nuotata in un canale di scolo, chissà dove, da solo e senza particolari ricordi del giorno prima. Nessuno aveva visto niente, era tutto a posto.

Alzai gli occhi da terra e, neanche a farlo apposta, mi ritrovai a fissare la merda.

Una merda vera, viva, che strisciava come un lombrico, a due passi da me. Si fermò, mi esaminò quasi con superiorità e riprese a serpeggiare come se niente fosse. Ma che stracazzo.

Un rumore indistinto mi permeava i sensi. Un'interferenza. Di nuovo. Di nuovo?

Inspirai ancora e decisi di averne abbastanza. Dovevo riprendere il controllo di me stesso; non ero un patetico disperato che si lagnava addosso, suvvia, almeno non davanti a tutti. Io ero...

Chi ero io? Merda. Merda santa. Non ricordavo il mio nome. Non sapevo come mi chiamassi, da dove venissi, come ci fossi finito in una sottospecie di città dall’aria apocalittica. Non sapevo nulla!

Calma. Calma, calma, calma. C’era per forza una spiegazione. Dovevo aver battuto la testa da qualche parte, non era la fine del mondo.

Mi alzai lentamente, tastai le gambe che avevano ritrovato la forza di sorreggermi e mi aggiustai i vestiti infradiciati. Indossavo un orribile divisa marrone da carcerato con qualche bruciacchiatura sul colletto. Ero stato in prigione? Ero evaso?

«D'accordo» bisbigliai. «Poteva andare peggio, potevo essere nudo. Nei sogni succede sempre.»

Le mie mani avevano qualcosa che non andava. Avevo sempre avuto le dita nere dalle punte azzurro elettrico? Anche il braccio era nero, e il petto, e... Che trovata era quella? Io ero caucasico, che cazzo. Almeno questo me lo ricordavo. Mi avevano trapiantato la pelle? Era possibile? Ero finito nel corpo di un altro? Io non volevo essere un segregato senza diritti!

Mi guardai intorno con una sensazione di inquietudine crescente e mi strofinai il braccio. La città intorno a me era sudicia che neanche le rappresentazioni di Londra nel settecento, anche se le costruzioni sembravano uscite dall'America degli anni venti; sotto i miei piedi, l'asfalto era crepato e le strade dissestate e cosparse di buche.

«Che cazzo è, Detroit?»

Alzai di nuovo gli occhi al cielo rosso sangue. Un enorme pentacolo svettava tra le nuvole nere e tutto era avvolto in una cappa di fumo acre che dava ancora più il voltastomaco. In lontananza, una stella bianca e dorata sembrava l'unico faro positivo in quel mare di inquietudine e raccapriccio.

Uno strano tizio dagli occhi vuoti e le antenne da insetto mi passò a un metro, mi squadrò da capo a piedi e trattenne un risolino stridulo. Che cazzo voleva? Avevo del fango in faccia? In effetti, dovevo essere lurido come un maiale che si era rotolato negli escrementi. E sentivo la testa ancora più strana, man mano che passavano i minuti. Mi sentivo tutto strano, come se avessi perso gran parte della sensibilità. Avevo pure il corpo nero, Gesù Benedetto.

Passarono altri loschi figuri, uno più assurdo dell'altro. Gente a forma di pesce, con quattro braccia, con i crani a punta o triangolari, senza occhi, con sei, con due bocche... che diavolo di posto era quello?

«Come a Hiroshima» bisbigliai inquieto. «Le radiazioni dell'atomica. Sono finito in qualche città bombardata. I telegiornali mica parlano di certi retroscena della guerra.»

Mossi qualche passo verso il marciapiede, mentre la carnevalata di mostri mi passava intorno indifferente. Un'auto che sembrava sul punto di cadere a pezzi fece capolino da dietro l'angolo, il tettuccio si spalancò e ne uscì una mano guantata... con un fucile.

«Oh, cazzo.»

Mi buttai a terra appena in tempo. I colpi esplosero e si abbatterono alle mie spalle, sulla folla che prese a urlare. Ma non erano grida di paura, quelle. Erano fomentati. Mi guardai dietro e, neanche si fossero messi d'accordo, vidi ogni singolo disgraziato mutante sfoderare anch'esso un’arma, che fosse una pistola, un coltello o perfino una spada. Mi trascinai via sui gomiti proprio mentre iniziavano a rispondere al fuoco dell'auto, che cercò inutilmente di deviare e si schiantò contro un muro di pietra.

«No, no, no. Proprio no.» Mi riparai dietro un angolo. «Questa è la terra di nessuno. Il fottuto Bronx dei mostri!»

Una vetrina a pochi passi esplose e una pioggia di schegge mi cadde addosso. Mi schermai la testa con la mano e trattenni a stento uno strillo isterico. Che strano. Ero spigoloso, ero...

Sbarrai gli occhi e strisciai con attenzione verso i frammenti. Abbassai il capo e mi guardai riflesso nei detriti.

Ero cubico. Al posto del cranio avevo uno schermo da cui emergeva l'immagine in bianco e nero di due occhi sgranati che fissavano davanti a sé e una bocca spalancata dai denti aguzzi. Porca troia. La mia testa era una fottuta televisione, la mia espressione si muoveva sullo schermo come una cazzo di registrazione.

«Porca di quella troia ladra.»

Rimasi in ginocchio, mentre i suoni si attutivano e non rimanevano che i circuiti. Dio. Dio Santo. Lo sfrigolio che sentivo, quella strana interferenza che mi ronzava nelle orecchie che non avevo più... erano circuiti. Vene di metallo. Porte, pulsanti, tubo catodico. Avevo anche delle antenne, dritte, leggermente inclinate da una parte e dall’altra.

Pesava poco più di una testa normale, però porca puttana. Che cazzo mi avevano fatto?

Un colpo d'arma da fuoco mi rimbalzò a tre centimetri dal ginocchio e mi riportò alla realtà. Non importava. Testa da televisione o no, dovevo andarmene da lì all'istante o sarei morto.

«'Fanculo.» Rotolai di lato e balzai in piedi. Presi a correre come un dannato nel primo vicolo che trovai, i ratti geneticamente modificati anche loro che si scansavano al mio passaggio e i barboni - chi con un imbuto al posto della bocca, chi con gli occhi cuciti - che neanche mi consideravano. Era la fiera dell'assurdo, un brutto incubo che però non accennava a dissiparsi nonostante i continui spaventi.

Mi rifugiai in una porta semi-aperta e me la sbarrai alle spalle. L'oscurità mi abbracciò ad eccezione di qualche spiraglio di luce proveniente dalle finestre spaccate e i rumori della battaglia si attutirono appena. Ripresi fiato e misi a fuoco l'abitacolo, terrorizzato: ero in un vecchio magazzino, le casse vuote e spaccate erano disseminate per la sala insieme a vecchi fogli e bottiglie rotte.

Dopo minuti che parvero eternità, non restò che il mio ansito sconcertato e il pulsare di quello che non era affatto un cuore di carne nel mio petto.

«Va bene.» Deglutii un groppo di saliva. «Va bene, d'accordo. Sono finito in un girone degli orrori. Va bene, non c'è problema. Ho visto di peggio, no? No?!»

Era davvero così? Avevo ricordi tremendamente vaghi di ciò che avevo fatto prima di risvegliarmi in acqua, a parte qualche sporadico flash di città e nomi. Sapevo cosa fosse Detroit, Hiroshima e il Bronx. Sapevo concetti generali e il funzionamento degli oggetti.

Non avevo informazioni personali, però. Il mio nome ancora non lo ricordavo, insieme alle mie generalità.

«Non va bene.» Caddi in ginocchio di nuovo e mi presi la testa - la fottuta testa da televisione - tra le mani. «No, no, no. Non va bene. Non doveva andare così, io volevo solo... Cosa? Che sta succedendo? Dov'è la mia faccia? Io rivoglio la mia faccia. Perché a me? Che ho fatto di male?»

«Hai combinato qualcosa di là, coglione.»

Per poco non mi prese un infarto. Mi appiattii contro la porta, mentre un'ombra in fondo alla stanza si agitava e prendeva la forma di un enorme mostro barbuto simile a uno yeti. Aprì la bocca in un ringhio e mise in mostra la fila di denti marci e seghettati come quelli di una iena.

Era troppo, dannazione.

Afferrai una spranga di metallo arrugginito a due passi da me e gliela puntai addosso. «Prova ad avvicinarti e ti apro la testa in due, stronzo.»

Il mostro alzò un sopracciglio cespuglioso e mi squadrò anche lui dall'alto al basso. Che cazzo di fastidio. «Ma posa quel coso, smilzo dalla faccia quadrata.» Prese a ribaltare le casse abbandonate con una semplice manata che, in effetti, mi fece davvero sentire uno smilzo dalla faccia quadrata, e osservò qualsiasi cosa ci fosse nascosto.

«Dove...» Non balbettare. Quell'ordine venne dal profondo e mi colpì come un macigno. C'era qualcosa che avevo scordato, ma che riguardava proprio il mio modo di parlare. «Dove ci troviamo, in nome di...» La gola mi si chiuse di scatto e lo stomaco mi si annodò, piegandomi in due. Tossii e mi appoggiai al lurido muro del magazzino per non stramazzare a terra. «Cosa... Che...»

«Volevi chiamare il nome del grande capo lassù? Povero idiota. Hai perso ogni diritto quando sei finito quaggiù.» Il buzzurro non mi degnò di uno sguardo, mentre continuava la sua caccia al tesoro. «Non hai ancora capito? Sei all'Inferno. Benvenuto nella terra della dannazione.»

Aprii la bocca e la chiusi un paio di volte. Non avevo capito bene. Dovevo non aver capito bene. «Dov’è che siamo, puoi ripetere?»

«Vuoi che ti canti una canzoncina? Sei. Nel. Cazzo. Di. Inferno. Sai, quello coi demoni che ti torturano. Non hanno i forconi, però: si sono modernizzati e ora usano i fucili come la gente normale dall’altra parte. E non ti torturano: ci pensi da solo a punire te stesso, mentre loro si fanno gli affaracci propri negli altri gironi.» Sventolò l'enorme zampa prima che avessi modo di emettere una sola sillaba. «Sei stato fottuto in Terra e ti hanno sbattuto a Superbia insieme a tutti noialtri ex umani. Niente di più. Hai avuto culo a precipitare a Pentagram City, la capitale. Qui almeno c'è un barlume di servizi assistenziali; se vai fuori le mura è letteralmente l'anarchia e non duri trenta secondi.»

Rimasi immobile a fissarlo sgomento. Inferno. Ero morto. Mi avevano sbattuto all'Inferno. Nella capitale. «Ma io...» Mi strinsi le mani l'una sull'altra per non farle tremare. «Non mi ricordo neanche quello che ho combinato.»

Non ero mai stato un santo, su quello ne ero sicuro. Però addirittura all'Inferno mi sembrava troppo.

«Ti verrà in mente.» Lo yeti schioccò la lingua. «Ad alcuni ci vuole di più, ma le colpe ritornano sempre a tormentarti.»

«Ma... c'è anche il Paradiso, quindi?»

«Eh beh. Se c'è l'Inferno, ci sarà per forza anche quello.»

«E gli angeli?»

«Oh, quelli ci sono eccome.»

Che merda, era tutta una merda. «Non è giusto.» Appoggiai la schiena sulla parete incrostata, incurante dello schifo e delle tracce di muffa. «Non è giusto, che cazzo. Non posso essere stato così cattivo da meritare una cosa del genere. Io ero soltanto... qualcuno. Sì, qualcuno di normale. Avevo dei sogni, degli obiettivi.»

«A volte basta una stronzata fuori posto e butti nel cesso la possibilità di redenzione. Non ti crucciare o non sopravvivrai un altro minuto.» Yeti-man alzò le spalle. «Quaggiù più sei cattivo e più la scampi. Il che per te sarà uno schifo, perché sembri proprio insulso e rammollito, disposto a vendere l'anima al primo overlord che passa pur di conservare la pelle.»

Lo fulminai con lo sguardo. Avevo voglia di prenderlo e di urlargli quanto fosse lui quello insulso, ma mi limitai a inspirare brusco e a concentrarmi. Non avevo tempo da perdere con l'autocommiserazione e con gli stronzi, mi servivano informazioni per la mia prossima mossa. Inoltre, avevo la sensazione che non sarei neanche arrivato a sfiorargli il braccio, figurarsi aggredirlo. E che diavolo era un “overlord”?

«Perché un televisore?» domandai, invece.

«Tele-cosa?»

Per l'amore di quello che non posso neanche pronunciare. «Televisore» scandii, indicandomi. «La cosa che ho al posto della testa.»

«Si chiama così quella roba quadrata che ti ritrovi?»

Per l'amore di quello che non posso neanche pronunciare. Di nuovo. «Mi prendi in giro? Non sai cosa sia un televisore?»

Finalmente si decise a guardarmi e mi riservò un'occhiataccia accigliata. «Dovrei?»

«Mi vuoi dire che qui non c'è la televisione?» Alla sua espressione sempre più stranita, per poco non mi lasciai cadere a terra. Era il colmo, era la dannata ciliegina nella torta di merda che mi era appena calata addosso. «Non ci posso credere, questo è fuori da ogni logica. In che anno credete di essere?»

«Nel trenta, trentadue? Boh, io mi sono fermato a quando è arrivato lo strano tizio della radio a fare bordello in giro.»

«La radio? C'è almeno la radio?» Al suo cenno affermativo, mi misi una mano dove un tempo c'era stata la fronte. Non avevano ancora inventato la televisione e io non avevo più la faccia. E nemmeno i capelli. I miei capelli! Era terribile. Non ne avevo conservato un ricordo così nitido, ma ero certo che fossero stupendamente lucidi.

«Oh, che c'hai? Ti sfarfalla la faccia.»

C'era che stavo per piangere, era tutto uno schifo e io volevo solo farla finita. Scivolai sui talloni e mi abbracciai le ginocchia. Forse se fossi rimasto lì immobile a pregare, qualcuno alla fine si sarebbe impietosito e mi avrebbe salvato, un buon samaritano, un angelo. Sì, un angelo. Se i demoni erano cattivi e coi mitra, gli angeli dovevano essere gentilissimi. Qualcuno prima o poi mi avrebbe notato. I miei in vita mi avevano battezzato, ero un americano bianco, dovevo per forza essere entrato nel gregge del Signore. Possibile che non valesse niente? O forse ora che ero nero non valeva più?

«Beh, buona fortuna.» Yeti-man mi riservò un'ultima occhiata, con sottobraccio una cassa dall'aria pesante. «Vedi di sopravvivere, oppure no. Non me ne frega niente.»

Strinsi i pugni con lo schermo ancora appoggiato contro le ginocchia e non replicai niente. Non lo sentii andarsene, scomparve solo nell'ombra e il magazzino abbandonato rimase finalmente muto. Non c'era più nemmeno l'eco degli spari.

Era tutto immobile come me.

Che vita del cazzo.

 

***

 

Non avrei saputo quantificare quanto tempo rimasi accucciato in quel modo indegno, a fissare il pavimento con aria assente e i pensieri nichilisti in testa.

Dal poco che avevo scorto, il dì e la notte sembravano non intervallarsi come i giorni terrestri: quella sorta di aura rossa come il sangue perdurava sempre in un eterno crepuscolo senza speranze. Mi pareva di essere rimasto lì dentro per anni, ma potevano essere nient’altro che ore o addirittura minuti. Che schifo, quanto ero patetico.

Se non altro, però, ero capitato in un posticino tranquillo: a parte l'incursione dello Yeti-man, nessuno aveva più provato a mettere piede nel magazzino abbandonato.

Un luogo sicuro.

Alzai lo sguardo e misi a fuoco la desolazione che mi circondava. Faceva oggettivamente schifo, ma avrebbe potuto essere un punto di partenza. Ricominciare, rialzarsi. Sì, dovevo darmi una svegliata. Era inutile continuare a piangere sul latte versato: mi avevano sbattuto all'Inferno senza possibilità di difendermi da qualsiasi cosa avessi combinato, e non potevo farci niente se non cercare di sopravvivere e, perché no, anche rifarmi una vita. Potevo ricominciare daccapo, prendermi ciò che avevo sempre desiderato e che tutti, ero certo, mi avevano negato.

«Informazioni» mormorai. «Ho bisogno di informazioni, di capire com'è che funziona questo posto.»

Il mostro aveva detto che eravamo quasi tutti ex anime umane lì, e se c'era una cosa che sapevo delle persone era il loro essere naturalmente portate a organizzarsi in qualche modo. Che fosse una tirannia o una democrazia, si andava sempre a formare una gerarchia di potere alla fine. Una volta studiate e capite le dinamiche, si ottenevano le chiavi e allora era tutto un gioco a chi riusciva ad arrivare e restare più in vetta.

Mi alzai e inspirai. Non avevo tanti ricordi della mia esistenza da vivo, ma sapevo di essere uno metodico, un cazzo di elaboratore vivente, ora pure nell’aspetto. Non mi sarei fatto mettere sotto come un pivello qualsiasi, una povera anima disperata che si rifugiava in un angolino a piangere e lamentarsi.

Guardai lo schifo che avevo intorno e lo schifo guardò me, come l'abisso di Nietzsche. Avevo bisogno di un tetto sopra la testa, almeno finché non avessi capito come funzionava il capitalismo all'Inferno; potevo restare lì e rendere quel posto vivibile, per cominciare. Avevo anche bisogno di soldi o qualunque cosa si usasse per smerciare beni e servizi in cambio.

«Può funzionare.» Cercai di sorridere. «'Fanculo, funzionerà.»

Dopotutto, non avrebbe potuto andare peggio di così. A cominciare da quel luogo triste e abbandonato. Avevano devastato la sala rubandone qualsiasi oggetto anche solo lontanamente utile. Potevo dormire per terra, rimediare una coperta. Non ero una fighetta debole, io ero pratico.

Aprii con prudenza la porta scassata e mi addentrai nel fitto reticolo di strade dissestate. Incontrai una rissa a neanche un paio di metri e fui costretto a cambiare strada. Neppure il tempo di capire dove stessi andando che ero di nuovo finito nel bel mezzo di una sparatoria.

Ci sono dei problemi.

Una persona fu scippata a un metro da me, un'altra trascinata via tra urla agonizzanti e un'altra ancora si ritrovò cosparsa di benzina e incendiata nel giro di tre secondi. Tutto davanti ai miei occhi.

Ci sono decisamente dei problemi in questo posto.

«Avanti.» Strinsi i denti e avanzai, con lo sguardo fisso davanti a me. «Sempre avanti. Le priorità sono altre.»

La mia mente era un fiume in piena di pensieri che man mano si stavano impilando in un'ordinata lista di cose da fare.

Orientarsi. Dovevo trovare qualcuno di abbastanza tranquillo e pacifico a cui chiedere informazioni per capire come fosse organizzato quel luogo, anche se chi mi circondava aveva l’aria tutt’altro che raccomandabile.

«Chiedo scusa, buon uomo.» Mi stampai in faccia il sorriso più affabile del mio repertorio, mentre mi avvicinavo a un tizio seduto su una panchina, intento a leggere il giornale. Almeno da dietro appariva umanamente normale. «Sono appena arrivato. Potrebbe dirmi dove posso reperire una cartina geografica della città.»

Il passante girò lentamente la testa di centottanta gradi. Il sorriso spettrale evidenziava i denti aguzzi e gli occhi di un nero assoluto erano due pozze che si affacciavano sull'oscurità. Forse avevo scelto male, ma proprio male. Arretrai deglutendo, mentre anche il corpo dell'uomo scattava in piedi con un rumore raccapricciante di ossa e seguiva i movimenti del capo. Alzò un dito scheletrico e mi preparai a correre così in fretta che neanche una cometa avrebbe potuto eguagliarmi. «Centro» disse solo, indicando un punto alla mia destra. «Centro.»

Si risedette e riprese a leggere, dopo avermi perfino fatto un cenno educato di saluto.

Roba da matti.

«Proprio fuori da ogni logica» borbottai stralunato, imboccando in fretta la direzione che mi aveva accennato. Mi strinsi nella mia logora divisa - non vedevo l'ora di cambiarla con qualcos'altro di decente - e mi guardai intorno, evitando di camminare troppo in vista.

Osservare.

La città di Pentagram aveva effettivamente un'organizzazione stratificata come ogni altro luogo sulla Terra. Il quartiere dov'ero precipitato doveva essere la periferia malfamata, perché più mi avvicinavo al centro e più emergevano negozi e infrastrutture dall'aria davvero funzionante e ben messa.

Una pallida imitazione di civiltà in un mare di follia, incredibile. Avevo ragione quando dicevo che in fondo l’umanità rimaneva la stessa: avevamo sempre la spinta a cooperare e a ingoiare la nostra individualità pur di raggiungere il nostro obiettivo. Sentirci protetti e al sicuro, avere tutto sotto controllo. Bestie sociali, infinitamente egoiste e manipolatrici disposte a tutto pur di campare. Era quasi commovente sapere che in fondo tutto il mondo era paese, anche l’Inferno.

Gruppi di anime viaggiavano insieme e chiacchieravano più o meno in pace, c'erano mezzi di trasporto e perfino automobili dall'aria moderna. Qualcuno rideva, qualcun altro portava a spasso il suo animaletto domestico dall'aria tutt'altro che carina.

Un ricordo mi balenò in testa, chiaro come un film.

Da piccolo avevo avuto un pesce azzurro. Si chiamava Capitan Baron. Facevo finta che fosse uno squalo rimpicciolito da una tecnologia aliena per poterlo trasportare meglio. Gli volevo bene, anche se era tonto come una staccionata e a volte andava a sbattere contro le pareti della boccia. Era morto dopo quattro anni di onorato servizio, pace all’anima sua. Chissà se anche le anime degli animali andavano in Paradiso o all’Inferno, o quelli che vedevo erano bestie autoctone del posto.

Sorrisi raggiante. Mi sono ricordato qualcosa.

Arrivai nei pressi di un enorme campanile dorato che scandiva i giorni, l’unico monumento veramente pregiato che avevo visto finora, e mi accorsi che in realtà era un conto alla rovescia. Dubitai che fosse per l’arrivo del capodanno o, addirittura, del Santo Natale; doveva essere per qualche festa satanica delle loro.

C’era un non sapevo cosa di tenero in quei numeri. Era bello scandire il tempo con un calendario dell’avvento. Era familiare, come se in fondo l’umanità non volesse far altro che sentirsi parte di qualcosa di più grande e collettivo, uno scopo anche stupido come aspettare la fine di un conto alla rovescia per festeggiare chissà cosa.

«Architettura gradevole alla vista?»

Mi voltai e mi ritrovai di fianco un essere così alto e sottile da farmi chiedere come facesse a non spezzarsi. Indossava un mantello nero che lo copriva dalla testa ai piedi, con un’enorme spilla a forma di ragno al centro del petto; un alto cappello a falda larga gli copriva il capo e una maschera altrettanto scura il volto. No, realizzai quando mi sorrise affabile e i quattro occhi di un giallo fosforescente si piegarono dal divertimento. Questa è la sua faccia.

Emanava un'energia sfrigolante e pericolosa, un odore pungente di antico che faceva torcere le viscere. Intorno a me, il mondo infernale sembrava essersi fermato: non c'era più nessuno nelle vicinanze, ogni passante si defilava non appena ci scorgeva, le espressioni sconvolte si mescolavano ai gridolini. Avrei dovuto fare dietrofront e iniziare a scappare anche io senza attendere un minuto di più, perché davanti a me non c'era un'anima dannata qualsiasi. Ne ero certo, lo percepivo fin nelle ossa. Ma i miei piedi traditori rimasero incollati al pavimento di pietra, lo stomaco sprofondato sottoterra e la sensazione di star sudando.

«Un po’ pacchiana, per i miei gusti» risposi tutto d'un fiato, prima di trattenere un’imprecazione. «Non... l'avete realizzata voi… vero, signore?»

Ci fu una pausa fin troppo lunga, dove lo sconosciuto si limitò a osservarmi con acceso interesse. «Affatto» disse alla fine. «Non è una mia invenzione, il tuo animo può restarne ben sereno. E anche se fosse, avrei di che essere d'accordo con te.» Il mio sbuffo di sollievo parve divertirlo, mentre tornava a guardare il campanile. «Quella che scorgi è una gentile concessione di Nostra Signoria, gli alti angeli del Paradiso.»

«Sul serio? Ma pensa.» Tornai anche io al monumento e non riuscii a frenare l’espressione sorpresa. «E cosa si festeggia, alla fine del countdown? Il compleanno di qualcuno di potente? Qualche…» Mi fermai un istante. «Qualche redento infernale che ascende in Paradiso?»

Un moto di speranza invase il mio cuore probabilmente artificiale. Forse non tutto era perduto, forse potevo aspirare a una vita migliore. Se veramente c’era la possibilità di potersi pentire e cambiare aria, avrei fatto il bravo e…

La risata graffiante dello sconosciuto mi riportò alla realtà con la brutalità di un laccio intorno al collo. «Anima candida e innocente, no affatto. Quello è il conto alla rovescia per il prossimo sterminio.»

Chiusi la bocca di scatto. «Il che cosa, scusate?»

«Lo sterminio» ripeté serafico. «I rintocchi della campana scandiscono il tempo che ci separa dagli angeli ammantati d’acciaio e di gloria divina che calano le loro lance sulle nostre fronti mortali. E a nulla possono i nostri scongiuri, nessuna pietà nei loro attacchi implacabili e nessuna preghiera. Solo metallo benedetto e morti maledette.»

«Gli angeli sterminano le persone?» Mi passai una mano sullo schermo. Che sensazione tremenda non trovarci il profilo di un naso, mi sarei mai abituato? «Non ha alcun senso. Dovrebbero essere gentili, sono i buoni! Vengono sempre dipinti come il bene in persona, i rappresentanti di...» La lingua si bloccò di nuovo nell'accennare al grande capo lassù. Accidenti, che cazzo.

«Nessuno è lontano dal male quanto lo è dal bene, a questo Universo.»

Come parla, porca troia? Repressi la tentazione di commentare che non avevo incorporato nel cervello un cazzo di dizionario, perché c'erano questioni ben più importanti di un poeta maledetto che ciarlava come un libro del '700. Uno sterminio. Doveva essere una sorta di seconda punizione per i nostri peccati, non c'erano altre spiegazioni. Non bastava che fossi circondato da fenomeni da baraccone e che lo fossi diventato io stesso, dovevano buttarmi addosso anche il carico da novanta.

«Come si sopravvivere a un evento del genere, di solito?» Lanciai un'occhiata ai numeri e feci un rapido calcolo. Mancava appena più di metà anno. Poco, considerando come ero messo a livello organizzativo: non avevo letteralmente niente, dovevo ricominciare d'accapo anche nelle cose più stupide. Tipo i vestiti. I dannati vestiti ancora mezzi bagnati fradici, che nervoso. La divisa del carcere non aveva neanche le tasche.

«Nascondendosi o imbracciando armi.» L'essere mi lanciò un'occhiata che avrebbe dovuto essere eloquente. «Entrambe le scelte portano onori e oneri, bisogna stare attenti alla strada che si intraprende.»

Storsi la bocca. «E come si sopravvive qui in generale?»

«Allo stesso modo: nascondendosi o imbracciando le armi.» Sorrise sereno alla mia occhiatina. «Purtuttavia, se mi è concesso rivolgerti un gentile consiglio, affinché il tuo soggiorno in tale perduto luogo ti sia più agevole, ci sono tre regole principali da rispettare.»

«E sarebbero?» Diavolo, quanto ci girava intorno.

«Sopravvivere a qualunque costo. Non avere pietà.» I suoi occhi si assottigliarono, due lame taglienti color acido. «Tutto ciò senza pestare i piedi agli overlord.»

Overlord. Era già la seconda volta che li sentivo nominare.

A quell’uomo doveva piacergli proprio parlare per frasi fatte, un altro pagliaccio del circo degli orrori che si credeva tanto innovativo. Strinsi le labbra e repressi l'ennesima smorfia seccata: scappare o contrattaccare, non mi piaceva avere così poche opzioni.

«Avete parlato di “overlord”. Cosa sono?»

«Sei un ragazzo alquanto inconsapevole.»

«E voi siete abbastanza confondente. Sono precipitato qui solo ieri, non so neanche come mi chiamo.»

Annuì comprensivo. «Trova un’occupazione al più presto. Le anime erranti e senza una meta non perdurano.» Anche quello lo avevo già sentito. «Imparerai presto che l'Inferno non è così diverso dalla Terra.»

«Lo avevo notato.»

«Attento solo a come usi gli strumenti nelle tue mani, infine. Alcuni sono più potenti di quanto credi, e non tutti amano l'idea che i loro piccoli giochi siano scoperti dagli ultimi arrivati.»

«Io voglio solo sopravvivere nel modo più comodo e semplice possibile. Delle seghe mentali degli altri non mi interessa un accidente, in tutta franchezza.» Stavolta fui io a non riuscire a trattenere un sorriso. «E non avete di che preoccuparvi. So come si maneggiano le news meglio di chiunque altro, mister…»

«Zestial.» L'essere accennò un saluto con il capo. «Ordunque, benvenuto all'Inferno allora.»

«Grazie.» Scrollai le spalle. «Posso chiedervi perché mi avete aiutato, signor Zestial? Non avete l'aria di qualcuno che soccorre gratis il primo trovatello.»

Mi sovrastava come una montagna, e non solo in altezza, eppure non vacillai. Lo avevo fatto fin troppo in passato, ne avevo la certezza. Ero stato per anni piegato in due come una foglia abbattuta dal vento. Ora basta. Non avevo paura di lui, non avevo paura di nessun dannato del cazzo lì.

«No, affatto.» Mi studiò per un secondo con uno sguardo che avrebbe bruciato il mondo intero. «Ho solo sentito risuonare nell'aria una nuova musica ed ero curioso di scoprire da chi provenisse.» Inclinò la testa. «È da tempo che quaggiù non si sentono altro che sinfonie non dissimili a urla e a rimpianti. Un vento di novità può essere interessante... o estremamente pericoloso. Piuttosto, giovane lord.» Indicò la mia testa. «Cos'è il curioso oggetto che sfoggi nel capo?»

Sventolai la testa. «Televisore. Non esiste qui, è una novità neanche troppo recente di lassù.»

Zestial annuì consapevole. «I miei ossequi, allora. Possa il fato essere alle vostre spalle, uomo senza nome.»

Mi superò senza aspettare che ricambiassi il pomposo saluto. Lo vidi allontanarsi con la folla che fuggiva come davanti a uno sciame di vespe velenose. Che branco di clown scappati dal manicomio.

«Zestial...» Un dannato a forma di bottiglia emerse da dietro un cassonetto. «Zestial, l’overlord più antico, ti ha parlato senza ucciderti.»

«Già. A quanto pare mi reputa speciale.» Ancora quell'appellativo, "overlord", e non uno qualsiasi: il più antico. Con tutta probabilità avrebbe potuto ammazzarmi con un solo sguardo. Avevo sfiorato la tragedia, eppure non mi sentivo neanche un briciolo minacciato. Anzi, più scoprivo cose e più rimanevo intrigato dal sistema di potere di quel covo di ogni nequizia.

"Overlord" era di sicuro un grado superiore rispetto alle anime normali, un'onorificenza destinata ai più forti. Quanti ce n'erano a Pentagram? E come si conquistava il titolo?

Non restava che scoprirlo.

«Una nuova musica, eh?»

Dovevo trovarmi un lavoro.